Per diagnosi precoce del tumore al rene ci si riferisce a una diagnosi posta agli stadi iniziali di malattia, quando la patologia è potenzialmente curabile.
L’obiettivo della diagnosi precoce è quello di ridurre la mortalità legata a tale patologia.
Il mezzo maggiormente utilizzato per la diagnosi precoce è lo screening; nel caso
della neoplasia prostatica il test di screening ancor oggi più confacente allo scopo è il dosaggio periodico del PSA ( antigene prostatatico specifico ).
Affinché una procedura di screening possa essere accettata, sia a livello individuale che di popolazione, è necessario che studi clinici ne dimostrino l’efficacia, intesa come riduzione della mortalità, e che il rapporto costi/benefici sia confermato oltre ogni dubbio.
Diversi sono gli studi clinici che si sono occupati di valutare l’efficacia del dosaggio del PSA come test di screening; i risultati di questi studi hanno dimostrato che il dosaggio del PSA permette una elevata anticipazione diagnostica, benché, di fatto, buona parte dei casi diagnosticati non sia destinata a manifestarsi clinicamente nell’arco della vita.
Questo è da ricondurre in parte alle caratteristiche intrinseche della neoplasia prostatica:
circa il 40% dei pazienti ai quali viene diagnosticato un carcinoma prostatico infatti, non è destinato a morire per la neoplasia prostatica ma con essa; il carcinoma prostatico può avere un andamento indolente o essere diagnosticato a un’età in cui la speranza di vita è limitata sia per l’età stessa ( spesso avanzata ) sia per la presenza di altre patologie ( comorbidità ).
L’anticipazione diagnostica e di conseguenza la sovradiagnosi portano a un sovratrattamento, non scevro da effetti collaterali e complicanze.
I benefici potenziali derivanti dall’attuazione di un programma di screening per il carcinoma prostatico rimangono pertanto incerti e non supportati ancora da solide evidenze
scientifiche: la notevole anticipazione diagnostica, la sovradiagnosi e il sovratrattamento continuano infatti a rappresentare importanti effetti negativi dello screening stesso, con le conseguenze anche di tipo psicologico che ne derivano.
Sulla base di questi dati, ad oggi pertanto non sembra opportuno adottare politiche di screening per la popolazione.
Fermo restando che il PSA resta un valido presidio utilizzabile in occasione di consultazione medica per la diagnosi differenziale del carcinoma prostatico quando esiste il sospetto clinico di tale patologia, il dosaggio del PSA non dovrebbe essere inserito nei controlli ematologici di routine, senza prima aver discusso con il soggetto rischi e benefici di tale indagine in assenza di un sospetto diagnostico.
Non ci sono sintomi specifici che riconducano al carcinoma prostatico. Spesso i disturbi che si possono presentare sono in realtà quelli della ipertrofia prostatica benigna, che spesso si associa al tumore, e sono: frequente necessità di urinare; indebolimento del getto urinario; dolore durante la minzione; presenza di sangue nelle urine o nel liquido seminale ( emospermia ).
I sintomi compaiono solo se il tumore è abbastanza voluminoso, ma difficilmente se è in stadio iniziale e di piccole dimensioni.
La diagnosi di carcinoma prostatico si basa essenzialmente sulle seguenti indagini: esplorazione rettale; dosaggio del PSA; esami strumentali ( ecografia transrettale, tomografia computerizzata, risonanza magnetica nucleare ); agobiopsia prostatica.
L’esplorazione rettale rappresenta il primo approccio al paziente con sintomi urinari. Nella maggior parte dei casi il carcinoma prostatico insorge a livello della porzione periferica della ghiandola prostatica, per cui se è presente un nodulo tumorale, è facilmente apprezzabile con tale manovra. Purtroppo la maggior parte dei tumori non si accompagna al reperto palpatorio di un nodulo, né tutti i noduli palpabili sono da attribuire alla
presenza di un tumore.
Il PSA è un enzima prodotto principalmente dal tessuto ghiandolare prostatico ed è secreto nel liquido seminale; solo una minima quantità raggiunge il circolo sanguigno. Quando è presente un’alterazione della normale struttura della ghiandola prostatica, come avviene in caso di patologia benigna ( ipertrofia prostatica, prostatite ) o maligna, i livelli di PSA nel sangue aumentano.
Per questo motivo il PSA è considerato un marcatore specifico di patologia prostatica. Il valore soglia più utilizzato è 4 ng/ml, ma tale valore deve essere considerato empirico: ci sono infatti soggetti con neoplasia confinata alla prostata e soggetti con ipertrofia prostatica che presentano dosaggi di PSA superiori a tale valore; per contro almeno il 20% di pazienti con neoplasia confinata all’organo presentano valori di PSA inferiori a 3 ng/ml.
Non esiste, tuttavia, un valore normale del PSA, piuttosto quanto più è elevato il valore del PSA, tanto maggiore è la possibilità di poter trovare un tumore nelle biopsie prostatiche.
Il dosaggio del PSA non permette pertanto di formulare una diagnosi differenziale tra patologia benigna e maligna ma, in associazione alle altre indagini disponibili, è un fattore importante nella programmazione diagnostico-terapeutica.
È importante sottolineare che, dal momento che esistono diversi metodi di misurazione del PSA, è raccomandabile effettuare i dosaggi sempre nello stesso laboratorio per il monitoraggio di ogni singolo paziente.
Tra le indagini strumentali disponibili per la diagnosi di neoplasia prostatica vi sono l’ecografia transrettale, la tomografia assiale computerizzata ( TAC ) e la risonanza magnetica ( RM ).
L’ecografia transrettale consente una valutazione più mirata della prostata e per questo rappresenta uno strumento di notevole utilità, in grado di aumentare la sensibilità diagnostica, sia in associazione al PSA che con l’esplorazione rettale; in realtà questo esame ha una bassa sensibilità e specificità ( perché almeno il 30% dei tumori è isoecogeno ). È invece metodica indispensabile nella guida della biopsia prostatica.
La TAC non è una tecnica adeguata alla diagnosi di carcinoma prostatico perché le caratteristiche radiologiche della ghiandola non permettono una corretta valutazione della prostata e quindi di eventuali alterazioni presenti in tale organo; quest’indagine strumentale viene invece utilizzata nella stadiazione di malattia, per valutare se sono presenti delle localizzazioni di neoplasia prostatica in altri organi ( ad esempio
linfonodi, osso, polmone, fegato, ecc. ).
La RM multiparametrica della prostata, frutto dei recenti progressi tecnologici, è uno strumento ad elevate potenzialità diagnostiche, e che riveste un ruolo importante anche nella pianificazione del trattamento e nei controlli durante il follow-up.
Quest’indagine permette infatti, non solo la stadiazione loco-regionale, ma anche l’individuazione del tumore, la sua precisa localizzazione rispetto a punti di repere anatomici e la sua caratterizzazione, consentendo la stratificazione del rischio, la sorveglianza e gli accertamenti nei sospetti di recidiva di malattia.
Attualmente i metodi principali per diagnosticare il carcinoma prostatico rimangono
l’esplorazione rettale, il dosaggio del PSA e la biopsia prostatica ecoguidata, ma la risonanza magnetica nucleare acquisisce sempre maggiori indicazioni soprattutto nei casi di dubbio sconfinamento della malattia a livello extra-prostatico e quindi per definire la migliore strategia terapeutica possibile.
La biopsia della lesione prostatica individuata all’esplorazione rettale e/o con l’ecografia transrettale permette di ottenere la certezza diagnostica di neoplasia prostatica.
La biopsia si esegue sotto guida ecografica e il numero di prelievi indicato è tra 12 e 16.
Una biopsia negativa non significa necessariamente assenza di tumore; è infatti necessario ripetere la biopsia in caso di forte sospetto clinico di neoplasia prostatica, o di aumento importante del valore del PSA.
La biopsia prostatica permette dunque di ottenere la diagnosi istologica nella neoplasia, che viene indicata nel referto dell’anatomopatologo.
Il referto deve riportare in maniera esauriente le seguenti informazioni: sede e distribuzione della neoplasia; istotipo ( adenocarcinoma, carcinoma acinare, ecc. ); grado di differenzazione della neoplasia ( punteggio di Gleason ); volume tumorale ( desumibile in qualche modo dal numero delle agobiopsie con tumore e dalla quantità di neoplasia in ciascuna biopsia ); invasione locale, perineurale, vascolare e linfatica.
Particolare importanza ricopre il grado istologico, indicato come punteggio di Gleason.
Questo punteggio, che rappresenta uno dei più importanti fattori prognostici indipendenti nel carcinoma prostatico, prende in considerazione il grado di differenzazione ghiandolare della neoplasia: più le ghiandole sono mal definibili e irregolari ( indifferenziate ), maggiore è il punteggio di Gleason assegnato e maggiore è l’aggressività della neoplasia.
Il punteggio di Gleason va da 2 a 10 e, convenzionalmente, si definisce una neoplasia di basso grado quella con punteggio Gleason =6, di grado intermedio il Gleason =7 e di alto grado una neoplasia con Gleason da 8 a 10.
Punteggi di Gleason inferiori a 6 non sono considerati clinicamente significativi. ( Xagena2015 )
Fonte: Carcinoma della prostata Informazioni per i Pazienti - AIOM, 2015
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